giovedì 28 febbraio 2013

I TEMPI MODERNI

Commenti preliminari

San Nilus fu uno dei molti discepoli e difensori ferventi di San Giovanni Crisostomo. Egli fu un funzionario alla Corte di Costantinopoli, sposato, con due figli. Mentre San Giovanni Crisostomo era patriarca, prima del suo esilio (398-403), diresse Nilus nello studio delle sacre scritture e nei suoi uffici di devozione religiosi. San Nilus lasciò la moglie ed uno figlio e prese l'altro, Theodulos, con sè sul Monte Sinai a farsi monaci. Il Vescovo di Eleusa ordinò sia San Nilus che suo figlio al sacerdozio. La madre e l’altro figlio abbracciaroso anch’essi la vita religiosa in Egitto. Dal suo convento sul Sinai, San Nilus divenne un noto personaggio nella Chiesa Orientale; coi suoi scritti e la sua corrispondenza egli giocò una parte importante nella storia del suo tempo. Era fu rinomato come teologo, studioso biblico e scrittore ascetico, cosìcchè la gente di tutti i ranghi, fino all'imperatore gli scriveva per consultarlo. I suoi numerosi lavori, tra cui una moltitudine di lettere, consistono nella denuncia dell’eresia, del paganesimo, degli abusi della disciplina e dei crimini, delle regole e dei principii dell’ascesci, specialmente di massime riguardanti la vita religiosa. Egli ammonisce e minaccia persone di tutti i ranghi, abati e vescovi, governatori e principi, perfino l'imperatore, senza paura. Egli mantiene una corrispondenza con Gaina, un comandante dei Goti, per cercare di convertirlo dall’Arianesimo. Ha denunciato vigorosamente la persecuzione di San Giovanni Crisostomo sia all’Imperatore Arcadius che ai suoi cortigiani. San Nilus è stato considerato tra i più grandi scrittori dell'ascetismo del quinto secolo. La sua festa cade il 12 novembre nel calendario Bizantino; viene commemorato anche nel Martirologio Romano nella stessa data. San Nilus probabilmente morì intorno all’anno 430 poiché dopo tale data non si trovano più tracce della sua esistenza. (Da "L'Enciclopedia cattolica," 1911 edizione proprietà e letteraria riservata).

La Profezia di San Nilus

«Dopo l'anno 1900, verso la metà del 20° secolo, la gente di quel tempo diventerà irriconoscibile. Quando il tempo per l’avvento dell'Anticristo si avvicinerà, la mente della gente crescerà obnubilata delle passioni carnali, e il disonore e l’anarchia cresceranno più forti. Allora il mondo diventerà irriconoscibile. L’aspetto della gente cambierà, e diventerà impossibile distinguere gli uomini dalle donne, a causa della loro spudoratezza nel vestire e nell’acconciarsi. Questa gente sarà crudele e sarà selvaggia come gli animali a causa delle tentazioni dell'Anticristo. Non vi sarà più nessun rispetto per genitori ed anziani, l’amore scomparirà, e i Pastori cristiani, i vescovi, e i preti diverranno uomini vani, completamente fallaci nel distinguere la concezione del bene e del male. In quei tempi i costumi, la morale e le tradizioni dei cristiani e della Chiesa cambieranno. La gente abbandonerà la modestia, e ogni dissipazione regnerà. La falsità e l’avidità raggiungeranno grandi proporzioni e vi saranno sventure per quelli che accumulano tesori. Concupiscenza, lussuria, adulterio, omosessualità, calunnie, omicidi e loschi traffici domineranno nella società. In quel tempo futuro, a causa del potere di tali grandi crimini e licenziosità, la gente sarà privata della grazia del Spirito Santo, che essi hanno ricevuto col Santo Battesimo, e vivranno nel rimorso. Le Chiese di Dio saranno private del timor di Dio e dei pii pastori, e sventure vi saranno per i cristiani rimasti nel mondo di quel tempo; essi perderanno completamente la loro fede perché mancheranno del tutto dell'opportunità di vedere la luce della conoscenza di Dio. Allora alcuni cristiani si escluderanno dal mondo per andare in santi rifugi cercando di illuminare le loro sofferenze spirituali, ma incontreranno ovunque ostacoli e costrizioni. E tutto questo risulterà dal fatto che l'Anticristo vuole essere il Signore e padrone al di sopra di tutto e diverrà il dominatore dell’intero universo, e produrrà falsi miracoli e fantastici portenti. Egli conferirà pure saggezza depravata a questi uomini infelici cosicché scopriranno il modo di fare una conversazione con altri uomini da un capo all’altro della terra. In quei tempi gli uomini voleranno nell’aria come gli uccelli e discenderanno nel fondo del mare come i pesci. E quando loro acquisiranno tutto questo, questa gente infelice trascorrerà la propria vita senza il conforto di sapere, povere anime, che è l’inganno dell’anticristo. Egli è impietoso! Completerà così la scienza con la vanità che questo li farà uscire dalla retta via e a causa di ciò perderanno la fede nell'esistenza di Dio cadendo nell’apostasia. Allora il buon Dio vedrà la caduta della razza umana ed accorcerà i giorni per merito di quei pochi che si sono salvati, perché il nemico di Dio vuole condurre perfino gli eletti nella tentazione, se ciò gli sarà possibile. Allora la spada del castigo improvvisamente apparirà ed ucciderà il pervertitore ed i suoi seguaci».

Fonte: Holywar.org

giovedì 21 febbraio 2013

SANT’ALFONSO MODERNISTA


 
Ieri sera, come faccio spesso, mi metto a leggere un buon libro.

Prendo quindi Pratica di amar Gesù Cristo di Sant’Alfonso Maria de Liguori.

Siccome la sonnolenza arriva presto sono costretto a riprendere la lettura alcune pagine prima di dove ero arrivato.

Essendo in quaresima ero ancor di più interessato a tornare indietro perche il Cap. IV parla dell’obbligo che abbiamo di amare Gesù a motivo del Suo Santo Sacrificio.

Arrivo al paragrafo 2 e leggo:” Nella Liturgia delle Ore la Chiesa ci fa Pregare: Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’Eucarestia ci hai lasciato il ricordo della tua Pasqua…”.

Mi acciglio.

“Fa’”, continua il brano, “che adoriamo con fede viva il santo mistero del tuo corpo e del tuo sangue…. Mistero della cena!”

Strabuzzo gli occhi.

Cosaaaa?

Mistero della cena?

Sant’Alfonso non può aver scritto queste cose.

Anche se tardi inizio in fretta qualche ricerca.

Vado a vedere la liturgia delle ore del Corpus domini e dice:

Deus qui nobis sub sacramento mirabili passionis tuae memoriam reliquisti, tribue, quaesumus, ita nos corporis et sanguinis tui sacra mysteria venerari, ut redemptionis tuae fructum in nobis iugiter sentiamus. Qui vivis et regnas cum Deo patre in unitate spiritus sancti Deus per omnia saecula saeculorum. Amen.

Trattasi dell’Ufficio della solennità del Corpus Domini  Antifona al Magnificat, così riporta alla nota 3 il libro.

In realtà è l’oratio.

Vado allora alla ricerca di un testo “originale” e provvidenzialmente trovo il cap. IV che riporta: Quindi poi la S. Chiesa prega: Deus qui nobis sub Sacramento mirabili Passionis tuae memoriam reliquisti etc.

Ma come potete vedere non solo è stata cambiata la parola Passione con Pasqua ma è stato aggiunto arbitrariamente MISTERO DELLA CENA.

Sant’Alfonso in chiave conciliare, incredibile.

Cosa faranno dire a Sant’Agostino, a san Tommaso e ai Padri della Chiesa?

Certo cambiano il vangelo non c’è da stupirsi che cambino gli scritti di qualcuno che non c’è più!

Sant’Alfonso non ha mai detto e scritto quelle cose!

Vergogna!

Rimango sconvolto e questa mattina telefono alla C.SS.R., cioè ai  missionari Redentoristi, fondata ta nel lontano 1732 a Scala (Costiera amalfitana) da Sant'Alfonso e i suoi compagni. (SIC!)

Come è stato possibile tutto ciò?

Mi risponde il P. Ezio Marcelli, nolto gentile e comprensibile, che ha curato l’introduzione e che rimane perplesso, gli racconto tutto e gli dico che Sant’alfonso non può mai aver scritto quelle cose e mi dice che questo putroppo è l’errore di voler aggiornare il linguaggio e addatare tutto ai nostri tempi.

Novatores!

Gli domando: Ma Sant’Alfonso non parlava mica ostrogoto, ho letto altri suoi libri e si capisce benissimo.

Poi gli dico: Ma chi ha dato l’approvazione ecclesiatica?

Risponde: Non riguarda le parole ma l’ortodossia del contenuto.

Rispondo: Se parliamo di fede protestante!

Risponde sorridendo.

Prego di dare risalto a questa notizia il più possibile affinchè questo scempio di libro “adattamento in lingua corrente” di tal PADRE ALFONSO ( doppio SIC!) AMARANTE non venga più acquistato.

E’ doveroso sottolineare che è edito da Città Nuova (casa focolarina).

Se qualcuno ha consigli per portare avanti questa denuncia, essendo un devoto di Sant’Alfonso, sarò ben lieto di ascoltarla.

Vergogna per un confratello di Sant’Alfonso, pregherò il santo affinchè interceda per lei.

Infine: P. Marcelli la ringrazio per la sua gentilezza e per la comprensione ma «Error cui non resistitur approbatur»! spero che con la mia esortazione faccia qualche cosa in merito!

 

                                                                                                                      Stefano Gavazzi

lunedì 18 febbraio 2013

Ecco il reale Concilio Vaticano II. Signori in piedi!


«Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale.»
Papa Benedetto XVI
In quello che probabilmente è stato il suo ultimo discorso al clero della sua diocesi di Roma, Papa Benedetto XVI ha dichiarato che egli abbandona la cattedra di Pietro pienamente convinto delle idee del Concilio Vaticano II. Se questo suo discorso del 14 febbraio, può fornire qualche indicazione, non ci sarà alcun cambiamento dell’ultimo minuto nei confronti della Fraternità San Pio X riguardo alla sua accettazione del Concilio
Il Santo Padre sembra determinato a concludere il suo incarico difendendo l’elusivo Concilio reale contro la sua supposta falsa impersonificazione degli ultimi decenni.
Sua Santità ammette le disastrose conseguenze seguite immediatamente al Concilio: «Sappiamo come questo Concilio dei media … ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata».
Ma “questo Concilio” di cui parla il Santo Padre non è il vero Concilio Vaticano II, quello che si è realmente svolto a Roma per tre anni e che ha prodotto dei documenti. No, Benedetto XVI fa riferimento ad un Concilio impostore, il “Concilio dei giornalisti”, che è il solo ad aver causato tutte queste disastrose conseguenze.
Se al reale “Concilio dei Padri”, i media avessero permesso di fare il suo lavoro, tutto sarebbe andato bene per la Chiesa! «Il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media», invece di guardare al vero Concilio dei Padri e alla loro visione fondamentale della fede «Per i media, il Concilio era una lotta politica».
Si tratta della stessa riciclata scusa di coloro che vogliono accettare una realtà contraddittoria: "il Concilio è buono, sono i suoi frutti ad essere cattivi". Il problema sarebbe che il Concilio non è stato mai compreso. E questo a dispetto del fatto che il suo predecessore abbia trascorso oltre vent’anni a spiegare abbondantemente cosa questo avesse realmente detto.
Benedetto non biasima il Concilio di Padri, ma la falsa interpretazione giornalistica dello stesso, che avrebbe prodotto la democratizzazione della Chiesa. «Per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire».
Ora, cerchiamo di essere onesti con i fatti.
Non fu il New York Times, né il London Evening Standard, a creare il virus della collegialità e delle Conferenze Episcopali, né a chiedere una maggiore “partecipazione attiva” dei laici nel governo della Chiesa. Sono stati i documenti del Concilio Vaticano II a farlo.
Non fu il Fox News ad adottare il nuovo Codice di Diritto Canonico, il quale, per volere di Giovanni Paolo II, uno dei Padri del Concilio, trasformò in legge la collegialità.
Ecco cosa scrisse Giovanni Paolo II nel suo decreto di promulgazione del Codice:
«Se ora passiamo a considerare la natura dei lavori che hanno preceduto la promulgazione del Codice, come pure la maniera con cui essi sono stati condotti, specialmente sotto i pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo I e di poi fino al giorno d’oggi, è assolutamente necessario rilevare in tutta chiarezza che tali lavori furono portati a termine in uno spirito squisitamente collegiale. E ciò non soltanto si riferisce alla redazione materiale dell’opera ma tocca altresì in profondo la sostanza stessa delle leggi elaborate.
Ora, questa nota di collegialità, che caratterizza e distingue il processo di origine del presente codice, corrisponde perfettamente al magistero e all’indole del Concilio Vaticano II. Perciò il Codice, non soltanto per il suo contenuto, ma già anche nel suo primo inizio, dimostra lo spirito di questo Concilio, nei cui documenti la Chiesa «universale sacramento di salvezza (Cfr. Cost. Dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, nn. 1, 9, 48), viene presentata come Popolo di Dio e la sua costituzione gerarchica appare fondata sul Collegio dei Vescovi unitamente al suo Capo». [Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983]
A meno che Benedetto XVI voglia sostenere che un Padre conciliare come Giovanni Paolo II non facesse parte del Concilio dei Padri, ma piuttosto del Concilio dei Media, la distruzione della struttura gerarchica della Chiesa, tramite la collegialità ed il Popolo di Dio, nonfu il lavoro di questo fantomatico Concilio impostore, ma fu, invece, qualcosa in armonia con i documenti e lo spirito del Concilio dei Padri.
Anche Benedetto XVI ammette che questa sovranità popolare fosse una “parte” del Concilio. Egli accusa i media solo per la “promulgazione” e per il “favorire”. E indubbiamente i media hanno aiutato, ma, ancora una volta, fu Giovanni Paolo II che promulgò come legge la collegialità…non i giornali.
Allo stesso modo, Benedetto XVI dà la colpa della crisi liturgica a ciò che egli chiama “Concilio virtuale” e non al Concilio storico.
«E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via».
In base a questa immaginaria dicotomia, non fu la Costituzione sulla Sacra Liturgia che chiese la revisione dei libri liturgici per renderli più attuali, che permise l’inculturazione delle relative pratiche locali (non appena approvata dalla collegiale Conferenza Episcopale), che permise per la prima volta traduzioni che il Santo Padre ora deplora; insomma, non fu questo documento che distrusse e portò alla secolarizzazione della liturgia, eliminando lo stretto controllo gerarchico, che la Santa Sede aveva praticato per secoli per permetterne la preservazione. No, fu il cattivo uso che fecero i media di questo documento.
Mi perdoni, Santo Padre, ma fu una Commissione della Santa Sede, sotto l’occhio vigile di Paolo VI, che approntò la nuova Messa, respinta dai due terzi dei vescovi quando per la prima volta la si mostrò loro. Essa non fu scritta dalla CNN.
E le deplorevoli traduzioni furono tutte autorizzate da documenti del Concilio e dalla Santa Sede e la distruzione della liturgia prescinde da queste false traduzioni.
Si ricordi che Mons. Ottaviani, che con il suo lavoro concludeva che il nuovo rito si allontanava dalla solenne definizione di Messa data dal Concilio di Trento, intervenne prima che fosse usata anche una sola traduzione.
E secondo il documento di Mons. Fellay (“Il problema della riforma liturgica”), le obiezioni teologiche della Fraternità alla nuova Messa sono fondate primariamente, non sulla cattiva traduzione del testo latino, ma sul testo latino stesso.
No, non furono i media, ma Paolo VI, l’arcivescovo Bugnini, le diverse Conferenze Episcopali, la Congregazione per il Culto Divino e la Costituzione sulla Sacra Liturgia, con tutti i loro documenti a distruggere il Rito Romano.
È sempre facile scaricare la colpa su un capro espiatorio. Questo permette di evitare la realtà dei fatti. Ed è ancora più facile quando il vero colpevole è un amico o un protetto.
Papa Benedetto è stato uno dei Padri dello storico e reale Concilio Vaticano II, ed è molto più facile dare la colpa ai grandi media cattivi, piuttosto che alla propria amata creatura.
"Non temete, nonostante la continua spirale discendente della Chiesa in ogni ambito, il Concilio reale sta finalmente emergendo", dice papa Benedetto con un sorriso di speranza ai suoi preti,
«50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale [dove, quando?]. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa».
Si vede il “vero Concilio” che dopo tutti questi lunghi anni sta finalmente mostrando il suo vero essere. «La forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa».
Ma sono stati i documenti del Concilio reale ad autorizzare e ad incoraggiare l’incontro di preghiera ad Assisi, la nuova Messa, la burocratica tirannia delle Conferenze Episcopali, la nomina di donne cancelliere di diocesi, ecc. ecc.
Ciò che Papa Benedetto evidentemente non può accettare, anche dopo due anni di dettagliata documentazione presentata nei colloqui dottrinali dalla Fraternità San Pio X, è che sono i documenti del Concilio reale a contenere le bombe a orologeria le cui schegge sono ora conficcate in tutta la nostra Chiesa in rovina. I media e i giornalisti hanno segnalato, con gioia ed esultanza, quello che il Concilio ha detto e quello che in seguito i papi hanno attuato in suo nome. Gli ultimi cinquant’anni sono semplicemente la conseguenza naturale delle idee e delle dichiarazioni partorite dal Concilio. È questa dura verità che il dimissionario Esperto Teologico del Concilio non vuole sentire.
Sembra che egli sia disposto a mantenere in piedi l’ingiusto esilio interno della Fraternità San Pio X, nonostante un suo personale, forte e apparente desiderio di porre fine all’ingiustizia, perché non vuole affrontare la terribile crisi che ha prodotto il Concilio Vaticano II.
Tutto quello che possiamo fare è pregare che Dio permetta che il prossimo papa non sia più un uomo del Concilio, ma sia disposto a chiamare le cose con il loro nome e a dire ai media: “Basta con questo Concilio predatore, noi stiamo ritornando alla Tradizione”.
Fonte: Traduzione di un articolo apparso su "The Remnant"

domenica 17 febbraio 2013

MAGISTRALE

Pubblico questo articolo preso da Acta apostaticae sedis, perchè, seppur lungo è un pò difficile e di alto livello, rispecchia ciò che sostengo sulla vicenda del Papa e rappresenta il sano realismo del cattolico e della sua dottrina ed il vero amore per la Chiesa e per il Papa.
 
PERCHÉ PAPA RATZINGER-BENEDETTO XVI

DOVREBBE RITIRARE LE SUE DIMISSIONI.

di Enrico Maria Radaelli


L’11 febbraio 2013, festa della Santa Vergine di Lourdes, il mondo ha ascoltato impietrito il Comunicato con cui è stato annunciato che Papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI ha dato le dimissioni, con effetto il giorno 28 dello stesso mese, dal suo altissimo Trono di Vicario di Cristo, di Sommo Romano Pontefice, di Vescovo di Roma e del mondo.

Le motivazioni adombrerebbero un sentimento di riconoscimento razionale e ponderato di insufficienza della persona, ormai molto avanti negli anni, impossibilitata ad affrontare i doveri cui è chiamato un Pontefice “del giorno d’oggi”, ossia davanti al carico immenso, sempre più oneroso, oramai davvero soverchiante, dell’altissimo ufficio.




Quel che qui si vuole esprimere potrebbe contrastare in qualche misura o anche totalmente il punto di vista di persone religiose di diversa sensibilità da quella di chi scrive, ma mi si permetta di esporre il mio convincimento prendendolo quale vuol essere e non come forse nella foga del discorso potrebbe apparire: una del tutto possibile congettura, un’ipotesi di lavoro; certo: ragionevolmente convinta, adeguatamente argomentata – si crede – logicamente e scritturalmente, che non vuole avere alcuno scatto di perentorietà se non quello di sollecitare il tempo a fermarsi almeno per qualche attimo, così da avere almeno per un giorno il sole fermo, e così non permettere ciò che, nella prospettiva qui da me aperta, l’irreparabile appunto, davvero avvenga.



In un lunedì di ordinario concistoro, divenuto improvvisamente fatidico, la cattolicità resta frastornata, inebetita da un annuncio inatteso, da una sonorità di tuono che quasi la

pietrifica: “Il Papa si dimette”. La notizia avvolge il mondo in un baleno, e subito lo rinserra come in un’unica pietra.



Il Papa si dimette. Si dimette?! Come: “Si dimette”? E la madre di famiglia? e la luna? è caduta anche la luna? Perché non si dimette la madre di famiglia? perché non cade la luna?

Come fa il Papa a ‘dimettersi’?

Infatti la carica ricoperta da un Papa è carica dove il sacrificio è natura sua indistruttibile e assoluta conditio a priori a ogni altra considerazione: « “Simone di Giovanni, mi ami tu più

di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi ami?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Gli rispose GESÙ: “Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti

dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. » (Gv 21, 15-8).

La croce è lo status di ogni cristiano: Cristo, crocevia tra Dio e gli uomini, Imago dell’Immagine di Dio per rappresentare dai Cieli Dio agli uomini e dalla terra gli uomini a Dio, è il modello esemplare a ogni suo seguace. Non c’è seguace di Cristo, non c’è “cristiano” cui la croce possa essere alleggerita, né tantomeno tolta: a san Paolo, esemplarmente, che ben tre volte supplicò il Signore di sollevarlo dai tormenti, Cristo rispose: « Ti basta la mia grazia. La mia potenza infatti si manifesta pienamente nella [tua] debolezza » (2 Cor 12, 9). E se si torna al Monte degli Ulivi, si sentirà ancora l’eco delle decise parole di obbedienza e sottomissione del divino Agonizzante: « Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà » (Mt 26, 42).



Conseguenze: ribellarsi al proprio status, rigettare una grazia ricevuta, parrebbe per un cristiano, da san Paolo in giù – per non dire da Cristo in giù –, colpa (grave) contro la virtù

della speranza, contro la grazia e contro il valore soprannaturale dell’accettazione della propria condizione umana, tanto più grave se la condizione ricopre ruoli in sacris, come

è la condizione, di tutte la più eminente, di Papa.



Non mi avvalgo delle centinaia di Pontefici che accettarono fino allo stremo il durissimo incarico: a decine li troviamo, nei secoli più terrificanti e bui della storia, eletti al Sacro Soglio magari già vecchi di anni oltre ogni dire – e spesso, maliziosamente, eletti proprio in quanto vecchi e acciaccati oltre ogni dire –, e Papi che ciò accettarono spesso ben sapendo della malizia con cui si approfittava della loro canizie.

Chi non ha letto nei libri di storia dei Papi che gli eletti dopo Papa Gregorio X, furono tutti di breve, di brevissima durata, perché nominati con la machiavellica intenzione che per la loro età o la loro salute o entrambe le cose, sul Sacro Soglio restassero poco, così da creare una situazione insostenibile e poi prenderla ancor più facilmente in pugno?

Non mi avvalgo delle centinaia di Papi che eroicamente resistettero davanti ai soprusi più sfacciati, alle angherie più ribalde, ai tormenti più atroci: querce indomite, spesso però dal fisico di fuscelli e di men che fuscelli, macerati poi di sovente anche da lunghi digiuni e da vere penitenze (allora digiuni e penitenze si comandavano e si facevano), la Chiesa offre boschi interi di forti Papi tanto ben radicati nell’amore a Cristo e nella fede che di tale amore è la sostanza più interna e inflessibile: queste querce, come Pietre son rimaste tutte al loro posto malgrado la violenza dei tormenti soffiasse sopra di esse e tutt’attorno – e certo anche nei loro cuori di carne, ben tremebondi com’erano per ciò che sapevano di essere se non avessero anche saputo che era il Signore a comandarli dov’erano –, cercando di spazzarli via come pagliuzze e anche abbruciarli.



Non mi avvalgo poi delle decine e decine di Papi propriamente e materialmente ‘martiri’, sarebbe troppo facile: il loro sangue si è sparso a fiotti per almeno tre secoli sulla rena del primo Cristianesimo davanti a plebi e imperatori che sghignazzando li avrebbero anche volentieri calpestati pur di annientare in loro il loro vero nemico, Cristo GESÙ.

Essi non si sottrassero al martirio, né al carcere durissimo, né ai lavori forzati, ma tutto assunsero nella loro intrepida ma anche trepidissima carne.

« “Simone di Giovanni, mi ami tu?” “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. “Pasci i miei agnelli”. ». Che è a dire: “Simone di Giovanni, vuoi vincolarti a me con il vincolo più forte della morte?” “Sì, Signore, lo voglio”. “Governa ciò che è mio”.

Neanche la morte può recidere un vincolo tre volte più forte della morte come è questo vincolo. Non c’è un vincolo tra Cielo e Terra più solido e indistruttibile di questo vincolo.

Dunque non mi avvalgo della storia. Ma è del Cristo che mi avvalgo. La storia nulla è, se non le si riconosce l’intima sua qualità di rivestire, di ricoprire, quasi di nascondere, un’essenza,

la quale essenza però, di suo, le sfugge, le è superiore, e la governa: i Papi, molti, moltissimi Papi si sono sacrificati fino a dare la vita, e non solo col sangue; molti, la maggioranza straripante, si sono interamente regalati all’amore totale e totalizzante per il loro Cristo e per il loro gregge, il quale è loro perché è del loro Cristo.



La storia dei Papi è stracolma di esempi straordinari di immolazione sull’altare della fede e dell’amore per il loro GESÙ. L’essenza rivestita dalla storia, immobile e sovrastorica, è l’amore divino che l’ha generata, che da Dio fluisce ma pure che a Dio ritorna attraverso l’immolazione dei suoi adoratori e seguaci.

Molti, non tutti, dicevo, sono i Papi ‘donatori di sé’: molti, e non tutti, perché la storia, schiava del diavolo, mille volte cerca di sottrarsi all’amore potente ma delicato di Cristo, e viene strattonata con le unghie e con i denti dal vile menzognero, malgrado l’amore del Cristo sia mille volte più ragionevole e diecimila volte più persuasivo delle insignificanti suggestioni del feroce e astutissimo suo imitatore.

Sull’Appia antica, all’incirca all’incrocio con la via Ardeatina, ai tempi della prima persecuzione di Nerone, gli Atti di Pietro, pur apocrifi, narrano comunque di un Pietro fuggiasco, che, impaurito, terrorizzato dalla ferocia neroniana scatenata come fuoco contro la nuova setta dei Cristiani, temendo di presto perdere la vita corre sulla strada che porta

a Brindisi, per poi lì imbarcarsi verso Israele, verso Ierusalem, ma si imbatte in GESÙ, che cammina in direzione contraria, verso l’Urbe: « Quo vadis, Domine? », « Dove vai, Signore? », stupefatto gli dice. E GESÙ: « Vado a morire al posto tuo, Simone ».

Notare bene: “Simone”, non “Pietro”.

Il fuggiasco non è più degno di portare il nome caricatogli dal Cristo, Cefa, Pietra, Roccia, ‘L’Infallibile certezza di altissima Verità’. Il pavido egoista e molto umano Simone, che certo avrebbe ricevuto la più totale comprensione dai de Bortoli, dai Galli della Loggia, dai Magris, dai Mancuso, dai Melloni, dai Messori, dagli Scalfari, dai liberali insomma di tutto il mondo di

dentro e di fuori della Chiesa, quasi il suo sia « per il bene della Chiesa » un gesto di libertà e di coraggio, « un gesto profetico », come sussiegosamente esclamano persino i laicisti più spinti,

si trova nudo nel suo antico nome di pescatore da nulla: un uomo slegato dalla Croce.

Ma qui ci si chiede se non si sia slegato, in qualche modo, anche dalla Provvidenza dei Cieli.



Ecco cosa succede quando un Papa (ma anche un vescovo qualsiasi, anche un chierico tra i tanti, dirò di più: persino l’ultimo dei fedeli) fugge dal luogo dove l’ha spinto Cristo a penare, a soffrire, forse a morire: succede che Cristo va a penare, a soffrire, forse anche a morire, sì, al posto suo.

Il fatto è che quella sofferenza qualcuno la deve fare, e la deve fare perché la deve offrire, perché il male non può andare perduto: il male, ogni singolo male, va redento, va riscattato,

ossia non solo va raccolto e tramutato nel bene originale che era, ma, con l’avvento di Cristo, va fatto salire alla pienezza del bene divino e di bene divino va riempito.

Cristo ha portato la croce nel mondo per togliere, « inchiodandolo alla croce » (Col 2, 14), il male dal mondo, come dice il Salmo: « Gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra

di me » (Sal 69, 10): il male, immane insulto dei demoni e dell’Inferno alla meraviglia dell’opera della creazione compiuta da Dio Padre, è ricaduto tutto sulla croce del Figlio,

tutto, così che essa ha raccolto tutto il male del mondo e lo ha inchiodato a sé. Tutti i fedeli di Cristo si lasciano compenetrare dal desiderio d’amore di dedizione di partecipare in crocifiggente pienezza al suo Sacrificio anche solo con la propria semplice vita quotidiana da nulla, con atti banali quali salire sui mezzi pubblici stracolmi, affrontare il freddo e il gelo per fare anche qualcosa di più del proprio dovere, non rispondere a un ingiusto rimprovero, preparare la tavola con amore anche quando a fine giornata si è prostrati dalla fatica,

pronti sempre a salire nell’immolazione in atti sempre più eroici – pubblici o silenti che siano – sempre nella più generosa offerta di sé, nell’obbedienza anche estrema alle leggi di Dio e a ogni suo volere, inchiodandosi in ogni modo comunque alla croce con lui e così, trafitti dai medesimi chiodi dal demoniaco insulto, in ogni attimo invece vincerlo.



Qui non ci si sta interrogando su quali possano essere le ragioni di un ripiegamento, perché o si sta alle ragioni addotte – « sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata,

non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino » –, o si possono aprire le porte alle illazioni più fantasiose, ma lasciando nell’angolo il punto fondamentale:

se le dimissioni costituiscano o non costituiscano un bene per la Chiesa, cioè se siano moralmente un lacerante vulnus o invece l’unica strada da prendere per il prosieguo del suo

cammino di evangelizzatrice e santificatrice del mondo.



Davanti alla Chiesa si sono assiepati in questi ultimi cinquant’anni conflitti teologici sempre più gravi, le eresie più antiche e pericolose si sono ridestate come serpi alzando il capo davanti e fin dentro le chiese di tutto il mondo senza che alcun Pastore le riconoscesse, le additasse, le fulminasse; la sconcezza della libertà di Rito si è sparsa per gli altari dell’orbe cattolico schiacciando al muro l’unico Rito che avrebbe avuto e difatti aveva la forza di combattere e vincere il liberalismo e il modernismo dedogmatizzante ora tanto vittorioso; per non dire delle terrificanti, squallide e odiose cancrene in cui sono stati e sono tutt’ora coinvolti a centinaia i suoi Pastori, e, di questi, proprio quelli che più dovrebbero mostrare integrità celestiale per il loro contatto con la purezza infantile; premono infine da ogni dove, ossia persino dalle voci inaspettate di cardinali ad alta visibilità e ad ancor più alto progressismo come il defunto Carlo Maria Martini, e in generale oramai direi da pressoché tutta l’universalità cattolica, che, avendo subito negli ultimi cinquant’anni una forte accelerazione alla propria già latente protestantizzazione dal Rito dedogmatizzato del Novus Ordo Missæ, ora non chiede che di uniformarsi, nei costumi, alle dottrine naturalistiche assorbite, premono, dicevo, le richieste per equiparare i costumi cattolici a valenza soprannaturale a quelli laicisti a valenza naturalistica, e quest’ultimo è forse, di tutti, l’elemento più vistoso, e magari anche lo scatenante.



La marcatura naturalistica è oramai nella Chiesa spiccatissima (vedi Comunione e Liberazione), il sentire semiprotestantico prepotente (vedi Bose, Taizé, Sant’Egidio, Neocatecumenali e Focolarini), e quelle pur larghe sacche cattoliche integre che ancora volentieri sarebbero anche disposte a rigettare l’una e l’altro, sono intimidite, intimorite oltre ogni dire dalla voce grossa e boriosa dei potentissimi laicisti e liberisti, i quali, esterni e interni alla Chiesa, dettano legge, nel senso che, appropriatisi da decenni dei registri accademici e

dei tabulati degli organici di filosofia, scienza, cultura, pedagogia, di tutte le arti e della comunicazione, impongono come vere e come naturali quelle leggi velleitarie e innaturali

che da se stessi si sono a propria misura procacciate.

Da qui le richieste di rivoluzionare finalmente i costumi concedendo per esempio la comunione alle coppie divorziate e ai risposati, il matrimonio alle persone dello stesso sesso,

il diritto alle medesime, una volta “sposate”, di adottare bambini, per non parlare delle pretese che si hanno nel vastissimo e delicatissimo campo del diritto alla vita, pressato dalla nascita alla morte da richieste germinate non da altro che dal più sfrenato naturalismo.

Ma perché non chiamarlo con il suo nome? Esso nient’altro è se non sfrenato puro e

semplice egoismo.



Tutte queste varie maree che sui due piani – teoretico sopra, pratico sotto – sono da tempo straripate nella Chiesa dopo il Vaticano II, che ha aperto le porte della doppia esondazione

allorché trapassò il linguaggio della Chiesa, da naturaliter dogmatico qual era, a simpliciter pastorale, che poi neanche pastorale è, come dimostro ne Il domani – terribile o radioso? – del dogma appena pubblicato, in tal modo polverizzando l’unica e sola diga veritativa che avrebbe potuto e dovuto tenere la Chiesa a propria difesa dal demonio e dal mondo, e, in sé, l’uomo, e intorno a sé la civiltà, la storia, l’avvenire tutto, per tutti tenere e tutti portare nella realtà.

Quindi si deve capire bene, a mio avviso, che non è certo questo il momento in cui – se per ipotesi la cosa si potesse realizzare, ma ora si vedrà che no: non si può – si possano

dare le dimissioni da Vicario di Cristo: la Chiesa è sotto schiaffo ora più che mai, e il timoniere, con gli argomenti portati, a mio avviso deve stare ben saldo, malgrado tutto, al suo posto di timoniere.

A Dio il sommo timone: egli sa commisurare le nostre forze alle altrui, e ciò mi basta.



Le dimissioni di Benedetto XVI vanno inquadrate in questo scenario ipodogmatico, a basso profilo veritativo, in questa che Amerio chiamava « desistenza dell’autorità », dove

dominano i gesti e i linguaggi artificiali, i gesti e i linguaggi di legno, finti, irreali, portati dal mondo nella Chiesa in occasione dell’assise di cinquant’anni fa, che siano quelli del linguaggio magisteriale piuttosto che quelli della liturgia, quelli delle nuove comunicazioni con cui ancora il magistero si inerpica con una certa dose di sprovvedutezza, tipo Biennale di Venezia o twitter, alla ricerca della società, o quelli di irrevocabili decisioni del supremo Pastore: magistero pastorale post Vaticano II, Novus Ordo Missæ e dimissioni papali sono tre eventi epocali, grandiosi, abnormi, protratti per decenni nel tempo o ratti come fulmine che siano non ha alcuna influenza né importanza: restano comunque artificiali, restano avvenimenti disgiunti, sconnessi, avulsi dalla realtà.



Il motivo per cui sono “di legno”, come ho detto, i linguaggi di magistero e liturgia post Vaticano II, lo spiego esaurientemente nel mio appena citato Il domani … del dogma;

quello invece per cui lo sono le attuali dimissioni papali lo argomenterò ora:



va considerato infatti che il canone 333 del Codice di Diritto Canonico, di recessione dal triplo mandato che le consentono(recessione del munus docendi, del munus regendi e del munus sanctificandi), non a caso voluto da quel Papa autodimissionato che Dante inchioda come vile (Inf., III, 60), Pietro da Morrone-Celestino V, usa assolutamente del potere che gli è conferito di monarca sommo e assoluto, ma è un canone che mette in contraddizione il papato con se stesso, e ciò, a mio avviso, non è possibile.

Infatti, nemmeno Dio usa assolutamente del suo potere assoluto, né lo potrebbe, ma solo relativamente, come ben spiegato da san Tommaso, che in primo luogo ricorda: « Nulla si

oppone alla ragione di ente, se non il non-ente » e spiega: « Dunque, alla ragione di possibile assoluto, oggetto dell’onnipotenza divina, ripugna solo quello che implica in sé simultaneamente l’essere e il nonessere.

Ciò, infatti, è fuori del dominio della divina onnipotenza, non per difetto della potenza di Dio, ma perché non ha la natura di cosa fattibile o possibile. Così, resta che tutto ciò che non implica contraddizione, è contenuto tra quei possibili rispetto ai quali Dio si dice onnipotente »

(S. Th., I, 25, 3).




Solo la nozione di Dio degli Islamici è una nozione assolutista, perché per essa Dio è onnipotente nel senso che può persino – per tale sua illimitata potenza – volere di non essere

Dio. Ma san Tommaso mostra che Dio, Essere tutto in atto, non può volere ciò che repelle all’essere: lui, l’Essere, non può volere di non essere (e neanche lo può pensare).

Solo un Papa, si dice, può avere il potere di dimettersi, ma io dico che tale potere non l’ha neanche il Papa, perché sarebbe l’esercizio di un potere assoluto che contrasta con

l’essere di se stesso medesimo, di non essere quel che si è.

Ora, imporre a se stesso di non essere se stesso è impossibile, come si è visto essere impossibile persino a Dio, perché, come a Dio, ciò implica la contraddizione dell’essere.

Un occhio non può dire a se stesso di accecarsi, né un piede di rattrappirsi. Essi ricevono da altri la vista e il moto, e da altri ne riceveranno l’annichilimento. Certo, altri sono i

datori di vista e moto e altri i loro distruttori, come nel caso di un Papa i datori del suo essere sono i cardinali elettori e il suo rapitore Dio, ma, come si vede, i soggetti: occhio, piede o Papa che sia, per quanto perfetti in ciascuna delle specifiche loro forme di occhio, di piede e di Pontefice Massimo, sono del tutto impotenti in quanto alla loro propria vita e sussistenza.



Cosa vuol dire infatti “essere Papa”? Ecco cosa vuol dire:

come il sacerdote riceve uno status, un marchio – l’ordine del sacerdozio – che rimane in eterno, perché riceve dal vescovo la partecipazione al sacerdozio di Cristo che è sacerdozio

eterno, così anche la papalità riceve da Dio un munus spirituale: la vicarietà di Cristo Capo della Chiesa in eterno, che solo Dio può togliere. E Dio la toglie solo con la morte.

Ma la toglie solo al corpo che muore, non all’anima che non muore. È solo in questo senso che si dice che Dio fa scendere dalla Croce: perché il corpo ha smesso di soffrire.

I poteri che implicano l’eternità possono essere interrotti solo materialiter, non substantialiter, infatti chi è consacrato sacerdote rimane sacerdote in eterno, che egli sia post mortem eletto al Regno dei Cieli o gettato nelle fiamme perenni.

Nella Chiesa esiste un solo sacerdozio in Cristo, come sappiamo, ma i gradi di sacerdozio sono due: uno universale, al quale partecipano tutti i battezzati, e uno sacramentale, conferito con l’Ordine.

Ma anche questo grado di sacerdozio, metafisicamente parlando, si distingue in due gradi: uno

è quello di tutti i chierici, l’altro è quello, ad personam, conferito unicamente al Vicario di Cristo, al Papa, in virtù della sua vicarietà: egli solo è rappresentante di Cristo in terra.

Il Papa riceve da Dio ad personam un vincolo mistico tra sé e il Corpo mistico della Chiesa, vincolo che lo lega ad essa con un legame divino unico, che non ha assolutamente nessun altro membro della Chiesa, come ad essa con il suo amore divino – e dunque legame divino – è legato il Cristo.

Questo vincolo, tre volte stretto all’essere dal nodo perentorio della risposta « Signore, tu lo sai che ti amo » alla perentoria domanda di Cristo: « Simone di Giovanni, mi ami tu? », è un

vincolo che solo la morte può togliere.

Ma, ripeto, è, questa, un’interruzione unicamente materiale: l’amore proclamato e dunque affermato come ‘fatto dato nell’essere’, nell’essere rimane, e vi rimane in eterno.



Le dimissioni sono permesse legalmente, il canone congetturato dalla persona stessa che aveva maturato la volontà di dimettersi ne configura le modalità. Ma l’istituto delle

dimissioni non è stato mai indagato nella sua conformazione metafisica, e tutti hanno sempre ritenuto che esse potessero discendere dal potere assoluto del monarca, che può tutto, senza distinguere – come invece fa san Tommaso – tra potenza assoluta in sé e potenza assoluta relativamente alla ragione di ente, ossia al principio di non-contraddizione.

Le dimissioni non sono permesse metafisicamente, e misticamente, perché nella metafisica sono legate al nodo dell’essere, che non permette che una cosa contemporaneamente

sia e non sia, e nella mistica sono legate al nodo del Corpo mistico che è la Chiesa, per il quale la vicarietà assunta con il giuramento dell’elezione pone l’essere dell’eletto su un piano ontologico non accidentalmente ma sostanzialmente diverso da quello lasciato: dal piano già alto del sacerdozio sacramentale di Cristo lo pone sul piano ancora più metafisicamente

e spiritualmente più alto di Vicario di Cristo.

Non considerare questi fatti è a mio parere un colpo al dogma, dimissionarsi è perdere il nome di Pietro e regredire nell’essere di Simone, ma ciò non può darsi, perché il nome

di Pietro, di Cephas, di Roccia, è dato su un piano divino.

Il dogma rigetta il colpo, e non ne risente, perché l’atto, come solito, non è stato formalizzato dogmaticamente, ma ne risente la Chiesa nel suo ambito umano, che difatti accusa il colpo nella sua confusione estrema, nella prostrazione e nel turbamento massimi subito corsi per tutta la cattolicità.



Si può suggerire a un Papa ciò che il Papa deve fare? In linea di massima non si potrebbe, sarebbe cosa davvero massimamente disdicevole. Ma il momento è di tale gravità, è di tale straordinarietà, è di tale turbamento che si rende necessario osare ciò che in tempo ordinario è proibito, e qui si compie proprio questo atto: si osa mettere sul tappeto davanti al Trono più alto ciò che si considera essere un dato da prendere in seria considerazione, e ciò si osa fare prima che sia troppo tardi, prima che sia compiuto l’ineluttabile.

La considerazione finale è dunque questa, e la porto dopo aver fatto tutte le premesse che ho fatto sul valore assolutamente scientifico e dunque del tutto ipotetico delle mie osservazioni e argomentazioni, e il rispetto sommo da dare alla persona e ancor più alla figura del Sommo Pontefice.

Papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI non dovrebbe dimettersi, ma dovrebbe recedere da tale sua suprema decisione riconoscendone il carattere metafisicamente e misticamente inattuabile, e così anche legalmente inconsistente.

« Cristo fu tentato per tre volte dal diavolo nel deserto – dice sant’Agostino commentando il Salmo 60 –, ma in Cristo eri tentato anche tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione [la fragilità, la minimanza, l’inettitudine], da sé la tua gloria [sulla sua croce], dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria ».

Con nell’animo queste considerazioni, non le dimissioni, ma il loro ritiro diventa sì un atto di soprannaturale coraggio, e Dio solo sa quanto la Chiesa abbia bisogno di un Papa

soprannaturalmente, e non umanamente, coraggioso. Un Papa cui non inneggino i liberali di tutta la terra, ma gli Angeli di tutti i Cieli. Un Papa martire in più, giovane leoncello del Signore, porta più anime al Cielo che cento Papi dimissionati (quanti saranno da oggi in futuro i Papi).

Atto dunque dettato da argomenti soprannaturali, riconoscendo che dalla Croce gloriosa non si scende perché comunque non si può scendere, meglio: perché, pur tentati, non c’è la strada per scendere, e la strada che si intravvede non è vera, ma è una strada di nuvola, di niente, e tanto più non può scendere e percorrere quella strada inconsistente la persona del Papa: la propria libertà, in specie se libertà di Papa, è affissata, è inchiodata alla volontà divina, unica, potente e vera Realtà che sulla Croce mistica ha voluto con sé il suo Vicario.

* * *

Enrico Maria Radaelli

Director of Department of Æsthetic Phylosophy

of International Science and Commonsense Association (Rome)

www.enricomariaradaelli.it

16 febbraio 2013

San Giuliano

martedì 12 febbraio 2013

IO LA VEDO COSI’


IO LA VEDO COSI’

 

La notizia mi è stata data da mia sorella da quel di Roma e non è che mi abbia sconvolto più di tanto certo è una cosa grave.

Mi sono venuti in mente, pur avendo pregato molto per il Santo Padre, il primo, se non erro, discorso e le sue parole all’inizio del suo pontificato e non riesco a cancellare la convinzione che non abbia avuto al forza, ma la forza viene dalla fede, di resistere al peso della più importante carica che esista sulla terra: essere il vicario di Dio.

Però ai tanti cori, con cui non mi accordo, neanche a quello della FSSPX, voglio rispondere dicendo la mia.

Sono convinto da un lato che questo è il segno tangibile della chiesa umana, simile ad un partito, che la gerarchia vuole instaurare, alla stregua di una qualunque altra istituzione umana.

Non è una novità che questa sia un’ eresia condannata.

Dall’altra penso che la Provvidenza divina, a causa degli eletti, (di cui non faccio purtroppo parte) il Buon Dio stia accorciando i tempi di questa agonia per giungere prima al calvario e poi finalmente far trionfare il cuore Immacolato di Maria Santissima e del Suo Divin Figliuolo,  mio Signore, Padrone e Redentore a cui debbo ogni cosa.

Verrà, infatti, presto un nuovo papa che non potrà  non essere modernista e che potrà solo proseguire sulla stessa strada dei suoi predecessori nel rispetto e nel culto dell’uomo.

L’accelerazione dei progressisti sarà tale che prima si arriverà al castigo prima le anime torneranno a salvarsi in numero elevato.

Mi arriva, oggi, una mail dal prof. Zenone che ha lanciato una crociata per il Santo Padre, per quanto possa stimare l’operato del prof. Zenone, direttore di fede e cultura, pur non conoscendolo personalmente, non posso essere d’accordo con lui nel rimpiangere Benedetto XVI.

Anche fosse per il fatto che verrà uno peggiore di lui, non posso.

Conosciamo le scritture, sappiamo a cosa andiamo incontro, le parole di Gesù, gli avvertimenti della Madonna come possono indurci a pensare di poter sottrarci al giusto castigo, accettiamo la nostra croce con pazienza e rassegnazione come dice Sant’Alfonso Maria de Liguori.

Benedetto XVI col suo limbo, l’ermeneutica della continuità, voleva, parlo al passato, un appiattimento delle coscienze ma soprattutto degli intelletti per preparare la strada ad un NOM comprendente una unica religione senza scossoni ma in modo edulcorato, lento, impercettibile, una messa in più, una sinagoga in più, una scomunica in meno, un ordinariato in più e così via.

D’altronde, come scrissi tempo fa, il dialogo con la FSSPX rientra nello spirito ecumenico, si tratta di unire ciò che ci divide, una cosa del tutto impossibile, come spiegava già a suo tempo Sant’Agostino riguardo agli eretici e gli scismatici.

Ma si sa Agostino è superato.

Unità nella diversità.

Vogliamo ricordare alcuni atti del Sommo Pontefice:

1)      Istituzione del S. P. con il ripristino della seconda messa cattolica. (la prima è il novus orror)

2)      Visite alla sinagoga

3)      Assemblee con la massoneria ebraica

4)      Visita ed elogio dei luterani e di lutero

5)      Reiterazione dello scandalo di assisi

6)      Enciclica in cui si auspica un NOM

7)      Visita scalzo alla moschea

8)      Approvazione del CNC

9)      Libri con reinterpretazione del vangelo. No questi non posso metterli qui

Atti del dottore privato:

1) Libri con reinterpretazione del vangelo sulla vicenda del deicidio

Vogliamo ricordare alcuni atti da giovane teologo? uno solo:

La collegialità, di cui è ora emblema e vittima allo stesso tempo.

Emblema perché fu il concilio a stabilire la pensionabilità dei prelati con il decreto Christus Dominus, come fanno notare i miei amici Gianluca ed Annarita (vedi NON POSSUMUS).

Emblema, forse, dico forse, per ribadire quanto è buono il concilio anche sotto questo aspetto e a sentire tutti i commentatori televisivi sembrerebbe così.

Vittima perchè magari costretto da qualcuno ad abbandonare che per il prurito di udire qualcosa (2Tim 4:3) di nuovo, non vede l’ora di accelerare questa corsa alla riforma della chiesa. Forse non lo sapremo mai.

Cosa rimane?

Rimane certo un grave gesto, Pietro non abbandonò la barca ma ricorse all’aiuto di Gesù.

 

Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!».

Ed egli disse loro: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. (Matteo 8:25,26)

 

Qualunque possa essere la motivazione, cosa avrebbe potuto e voluto fare Benedetto XVI senza l’aiuto del vero Capo della Chiesa se veramente avesse voluto il bene della Chiesa?

Chi pensa possa davvero dare la forza ed il potere di “di amministrare bene il ministero  affidato”?

Veramente l’uomo Joseph Ratzinger credeva che avrebbe potuto anche col  vigore sia del corpo”,  che  “dell’animo” amministrare bene la Chiesa senza di Lui?

“Tutto posso in colui che mi da forza” (Fil. 4:13).

Evidentemente per Benedetto XVI conta più la sua che quella di Dio.

Cosa rimane?

Rimane solo una visone della Chiesa: umana, perversamente tutta umana.

 

                                                                                                          Stefano Gavazzi

S. S. Benedetto XVI rinuncia al ministero petrino

Ricevo e pubblico da UNAVOX perchè mi trovo d'accordo in pieno su questa breve analisi alla luce dei commenti mondani mandati in onda dalle verie TV.
Tutto si risolve nell'uomo, in questa nuova chiesa conciliare.

S. S. Benedetto XVI rinuncia al ministero petrino


Riportiamo in calce la dichiarazione di Benedetto XVI: in italiano e in latino



Scioccato dalla notizia, Paolo si accascia sulla poltrona
e piomba in un sonno profondo.
Un sogno:

Gesù è sulla via Appia – Via Martyrum -,
la Croce sulle spalle, in cammino verso l’Urbe.
Stanco e dimesso, Benedetto XVI gli va incontro:
- Quo vadis Domine?
- A Roma, a reggere il timone che tu hai abbandonato,
risponde il Signore!



Alle 11,46 dell’11 febbraio 2013, l’agenzia ANSA diffonde il dispaccio con la notizia che Benedetto XVI ha dichiarato ufficialmente di voler rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, a partire dalle ore 20,00 del 28 febbraio prossimo.

Una notizia fulminante, che, come una saetta, ha di colpo percorso tutto il globo.

Possibile?

Il Codex Iuris Canonici (1917), al Canone 221, così recita:
Si contingat ut Romanus Pontifex renuntiet, ad eiusdem renuntiationis validitatem non est necessaria Cardinalium aliorumve acceptatio. (Se accade che il Romano Pontefice rinunci, per la validità di tale rinuncia non è necessaria l’accettazione degli altri Cardinali.)
Il Codice di Diritto Canonico (1983), al Canone 332, così recita:
Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno l’accetti.

Quindi, l’istituzione del “papa emerito” esisteva già di diritto, mancava solo che fosse realizzata di fatto: ci ha pensato Papa Ratzinger.

La questione è molto seria e richiederà un’attenta riflessione, anche alla luce di ulteriori notizie che, certo, non mancheranno di giungere, sia in maniera spontanea, sia e soprattutto in maniera interessata.

A caldo si può dire che l’annuncio a sorpresa c’è stato solo in parte, poiché il Card. Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, aveva già ventilata questa possibilità a fronte dello stato di salute di Giovanni Paolo II.
Nel suo libro intervista Luce del mondo, Ratzinger-Benedetto XVI disse a chiare lettere:
«Quando il pericolo è grande non si può scappare. Ecco perché questo sicuramente non è il momento di dimettersi. È proprio in momenti come questo che bisogna resistere e superare la situazione difficile. Questo è il mio pensiero. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o quando semplicemente non ce la si fa più. Ma non si può scappare proprio nel momento del pericolo e dire: “Se ne occupi un altro” […] Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in talune circostanze anche il dovere di dimettersi.» (Luce del mondo, Libreria Editrice Vaticana, 2010, p. 53).

Ora, non v’è dubbio che questa considerazione contenga un certo buon senso, tale che si riesca a seguirla e perfino a condividerla, ma non appena ci si fermi a riflettere che qui si sta parlando della funzione di “Vicario di Cristo”, ecco che nasce il bisogno di valutarla alla luce dell’aspetto soprannaturale che dovrebbe informare la vita di tutta la Chiesa.

Un semplice dirigente d’azienda avrebbe davvero il dovere di pensare in primis alla buona conduzione dell’impresa: se non ce la fa, passa la mano.
Quando nel consiglio d’amministrazione i componenti non riescono a mettersi d’accordo, l’amministratore delegato o s’impone o si vede costretto a dimettersi, spesso in forza di un principio improprio: la conduzione democratica dell’impresa.
Si potrebbe pensare che la stessa cosa possa accadere nella Chiesa, dopo che il Vaticano II ha portato all’esercizio collegiale dell’autorità. Ma il Papa non è un amministratore delegato, è il Vicario di Cristo, e come tale dirige la Chiesa non in nome del popolo o dell’assemblea degli azionisti, ma in nome e per conto di Nostro Signore, che esercita la sua autorità soprannaturale sul Suo Corpo Mistico, servendosi delle facoltà naturali e della debolezza umana del Suo Vicario.
Nell’esercizio del suo ministero petrino, il Vicario di Cristo terrà sempre conto di questo basilare elemento soprannaturale, dall’elezione alla morte.
Un papa che trascurasse questo elemento, misurando l’efficacia della sua funzione sulla base delle sue sole forze umane, rivelerebbe una scarsa o nulla considerazione della presenza di Colui che rappresenta. Rivelerebbe una formazione culturale e un convincimento interiore dalla valenza solamente umana, troppo umana; come se la Chiesa affondasse le radici in terra e non in cielo.
Oggi, alla luce della rinuncia di Benedetto XVI, si vede confermata l’attitudine degli uomini della nuova Chiesa nata dal Vaticano II: la sopravvalutazione dell’elemento umano e la sottovalutazione dell’elemento divino.

Tale sopravvalutazione la si coglie anche da diversi elementi che si presentano in questa vicenda: per primo la stranezza dell’annuncio “anticipato” della rinuncia.
Con tale annuncio fatto 18 giorni prima della data formale, Benedetto XVI ha aperto le ostilità in Vaticano, come se ce ne fosse stato bisogno: ha aperto la campagna elettorale.
Vista la particolarità dell’evento e visto quello che è accaduto in Vaticano negli ultimi anni, dalla architettata diffusione di informazioni riservate, alla contraddittorietà dei comportamenti della Curia, fino alle incredibili rivelazioni dell’anno scorso su un presunto complotto contro il Papa e le conseguenti smentite circa le riportate dichiarazioni del Card. Romeo in Cina, sarebbe stato più “pratico” e più efficace se il Papa avesse annunciato la sua rinuncia e contestualmente convocato il Conclave, proprio per il bene della Chiesa: per risparmiare alla Chiesa più di un mese di manovre elettorali.
Genera stupore il fatto che mentre la rinuncia si fonda su valutazioni meramente umane, lo stesso non sia stato fatto per i tempi della sua attuazione, così da ridurre al minimo le lotte intestine.
Certo che si può affermare che il Signore non farà mancare la sua assistenza in questo nuovo frangente, ma lo stesso si sarebbe dovuto tenere presente riguardo alle condizioni di salute, tanto da non giungere alla rinuncia.

Altro elemento, direttamente connesso con la sopravvalutazione dell’umano di cui dicevamo prima, è la reazione emotiva, superficiale e inevitabilmente ordinaria che ha suscitato questo annuncio.
Lo stesso era già accaduto con Giovanni Paolo II, con l’apprezzamento della sua sofferenza umana, ostentata in modo tale da trascinare nell’ordinarietà terrena la stessa figura del Vicario di Cristo.
Questa volta è apparsa l’altra faccia della medaglia: l’apprezzamento del cosiddetto senso di responsabilità umana e del travaglio psicologico, accompagnate in controluce dal balenio delle complesse irrisolte questioni interne ed esterne alla Chiesa, portate avanti con le pesanti spinte esercitate da veri e propri gruppi di potere. Questioni che esamineremo a suo tempo, e che spesso hanno visto convergere forze interne alla Chiesa e forze esterne: pensiamo, per esempio, alle coppie di fatto col corollario del matrimonio dei preti o alla pedofilia col corollario dell’omosessualità o al pan-ecumenismo col corollario del governo mondiale.
Un andamento che porta inevitabilmente a pensare ad un gravame difficilmente sopportabile, dove non si comprende bene quali decisioni siano state assunte dal Papa e quali invece egli sia stato costretto ad assumere. Pensiamo, solo a titolo d’esempio, alla sovraesposizione mediatica di Twitter, che ha scaricato sul Papa una valanga di insulti, come fosse un qualunque sprovveduto internauta.
Le pesanti ricadute sulla figura del successore di Pietro e sulla valenza del suo ministero universale, era inevitabile che portassero ad uno svilimento, tanto da suscitare, al momento dell’annuncio della rinuncia, la perplessità e lo sconcerto di quegli stessi responsabili religiosi e politici mondiali che in questi anni hanno premuto perché nella Chiesa le considerazioni umane prevalessero sulle esigenze di ordine soprannaturale.

Chiudiamo ricordando che tradizionalmente i documenti pontifici portano un incipit dal significato molto profondo e insieme complesso: servum servorum Dei, che è un titolo specifico del Papa. Oggi si è perso il senso di questo titolo, fino a trasformarlo, a volte in maniera perfino espressa, in servum servorum hominis, tale da invertire la polarità della funzione del ministero petrino.
Questa inversione ha permesso, inevitabilmente, che si giungesse al convincimento paradossale che per servire al meglio la Chiesa fosse possibile e coerente ritrarsi dal servirla. Un gesto che potrà pure apparire nobile agli occhi degli uomini moderni che si affannano a dire all’esterno di adorare Dio mentre dentro di loro adorano solo se stessi, ma che è la dimostrazione del fatto che modernamente il Papa non è più il primo dei servitori di Dio.

IMUV

lunedì 11 febbraio 2013

Il Papa: lascio il pontificato il 28 febbraio

Il Papa: lascio il pontificato il 28 febbraio

Lunedì, 11 febbraio 2013 - 11:52:00
Annuncio incredibile del Papa, che comunica le sue dimissioni dal pontificato entro il 28 febbraio. "Sento il peso dell'incarico, è per il bene della Chiesa", ha comunicato per giustificare il suo passo indietro. Le motivazioni che avrebbero spinto il Papa a questa decisione sarebbero tre. Primo, la malattia che lo ha indebolito. Secondo, la volontà di ritirarsi per meditare, magari in un convento di cistercensi. Infine perché non è più in grado di esercitare il magistero papale.
IL DISCORSO INTEGRALE
Carissimi Fratelli,
vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell'animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l'elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l'amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell'eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.
Fonte: Affariu italiani

 

giovedì 7 febbraio 2013

QUAESTIO DE SATURNALIBUS (OVVERO SUL CARNEVALE)


 
Il carnevale impazza e come in tante altre città anche nella mia si festeggia il carnevale.

O Puccio come è chiamato da noi
Fino a 18 anni non mi è mai piaciuto “sfilare” poi, più per altri motivi, ho ceduto alle lusinghe del divertimento.
Nel mio paese carnevale è una “tradizione” ed è molto sentito e molti giovinetti vengono iniziati a questa festa già prima dell’età della ragione. (secondo i dettami di San Pio X)
“Che c’è di male?”
“io ho sfilato tante volte e non ho mai fatto del male e non ho commesso peccati”, mi sento dire e spesso anche da persone intorno a me.
Vediamo se è così.
Se festeggiare il carnevale sia peccato (Utrum celebrare saturnalia sit peccatum)(1):
Sembra che festeggiare il carnevale non sia male.
Infatti alcuni balli sono consentiti e se non si aggiungono atti peccaminosi non è peccato.
C’è anche da dire che i cattolici nel mare magnum del mondo si sentono come spaesati e per non essere emarginati è necessario anche nei dovuti modi farli partecipare.
Inoltre privandoli di ogni divertimento si possono avere reazioni contrarie.
Alcuni sostengono che è consentito perché si entra nel periodo di quaresima.
Infine altri dicono non esservi male perché credono in Dio nei loro cuori.
Ma in contrario l’Apostolo dice: Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio (Galati 5;19-21)

Ed in altro luogo disse: Non vi illudete; né i fornicatori, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né i sodomiti, né i ladri, né gli avari, né gli ubriachi, né gli oltraggiatori, né i rapinatori erediteranno il regno di Dio (I Corinzi, 6:9-10).

Ma questa è proprio l’essenza del carnevale o dei saturnali da cui esso deriva.

Rispondo a questo dicendo che il carnevale, indipendentemente dalle interpretazioni sulla sua vera etimologia “carnem valere, far valere la carne o carnem levare come dice qualcuno, è una festa di origini pagane dedicata al culto di bacco e più propriamente del dio saturno, i così detti saturnali. Questi erano giorni dove si sovvertiva la realtà delle cose, si facevano orge ed ogni altra sorta di azioni libertine.

Ma essendo la festa la celebrazione di un giorno dell'anniversario di un importante evento religioso o laico di uno Stato e poichè il carnevale è una ricorrenza religiosa pagana,i questo modo si celebra il culto ad un demone o a più demoni essendo questa la festa dedicata ad un falso dio o agli dei che sappiamo essere demoni.

Oggi come oggi, essa rimane intatta sostanzialmente a quella istituita dai romani per il dio saturno.

Poichè nella religione il culto è il mezzo ordinato a Dio o alle divinità, quello dato in eccesso è un vizio che rientra nel peccato di superstizione che si oppone direttamente a questa stessa virtù come dimostra San Tommaso (ST p.II-II q92 a1, r).

Ma il culto è dovuto all’unico Dio e in questo caso delle tre specie di superstizione (2) rendere culto ad altro dio, essendo il carnevale una festa religiosa, sembrerebbe rientrare proprio nella specie dell’idolatria.

Il santo Aquinate infatti afferma: La gravità di un peccato può essere considerata da due punti di vista.
Primo, in base al peccato in se stesso.
E da questo lato il peccato più grave è quello dell'idolatria.
Come infatti in uno stato di questo mondo il delitto più grave consiste nell'attribuire onori regali a chi non ha la dignità regale, poiché ciò di per sé turba tutto l'ordine dello stato, così tra i peccati che si commettono contro Dio, e che pertanto sono i più gravi, il più grave di tutti sembra essere quello di attribuire a una creatura onori divini: poiché questo gesto di per sé costruisce un altro Dio nel mondo, menomando il primato divino.
(ST p II-II q94 a3 r)

Alla prima obiezione ci sembra di aver risposto sopra.
Indipendentemente dal ballo o altri peccati che possono seguire, festeggiare il carnevale è rendere culto ai demoni e gli altri peccati si possono aggiungere al peccato considerato in sé oltre ad essere occasione di peccato.

Alla seconda obiezione si risponde che sebbene in alcune circostanze sia consentito tollerare un male  per evitarne uno maggiore, questo insegna la Chiesa, ciò non toglie che intrinsecamente il male rimane male ed un male non può essere bene, quindi sarebbe opportuno non far partecipare i giovinetti al carnevale tuttavia sarebbe bene organizzare degli incontri in cui senza trasgredire e mascherarsi (il diavolo è padre della menzogna) possano trascorrere alcune ore di sano divertimento e con questo ci sembra di aver risposto anche alla terza obiezione.

Alla quarta obiezione si deve rispondere che il mezzo deve essere proporzionato al fine ed il fine della quaresima, che è il mezzo, è la nostra rigenerazione spirituale.

Ma come un costruttore prepara gli strumenti per costruire la casa disponendoli per il loro scopo così l’anima il corpo, che sono i nostri mezzi per raggiungere lo scopo devono essere preparati e predisposti al periodo che si va ad affrontare e non distruggendoli con il peccato che sappiamo essere la morte dell’anima e le gozzoviglie anche quelli del corpo.

All’ultima obiezione rispondo dicendo che il culto di Dio è di due specie: interno ed esterno.
Essendo infatti l'uomo composto di anima e di corpo, sia l'uno che l'altro componente deve essere applicato al culto di Dio: l'anima per onorarlo con il culto interno e il corpo per onorarlo con il culto esterno.
Per cui nei Salmi [83, 3] si legge: "Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente".
E come il corpo è ordinato a Dio mediante l'anima, così il culto esterno è ordinato a quello interno.
Ora, il culto interno consiste nell'unione intellettiva e affettiva dell'anima con Dio.
Perciò gli atti esterni del culto hanno applicazioni diverse secondo i diversi gradi di unione intellettiva e affettiva dei fedeli con Dio.
(ST p. II-II q101 a2 r)

Ma poiché il culto esterno è il segno del culto interno, come è una menzogna riprovevole affermare il contrario di quanto si crede interiormente mediante la vera fede, così è una riprovevole falsità prestare un culto esterno a un qualche essere contro ciò che si pensa interiormente. (ST. p. II-II q94 a2 r)

E’ evidente dunque che sfilando per le pubbliche vie si rende culto esterno ad un falso dio che vuole essere idolatrato in questo modo ed è altresì evidente che la disposizione interna è unita a quella affettiva.

E’ risolta così anche l’ultima difficoltà.

Al di là della forma volutamente giocosa simile alle questioni di San Tommaso, il carnevale rimane oggettivamente una festa pagana e nociva per la nostra eterna salute.

 

                                                                                                          Stefano Gavazzi


 

NOTE:

1 Il mio latino è mooolto arrugginito, magari qualcuno potrebbe correggerlo.
2 Le specie di superstizione sono: culto indebito al vero Dio, l'idolatria, la divinazione e la magia